Associazione Agrado

martedì 20 ottobre 2015

Georgia e la sua esperienza a Ceuta (Spagna) dopo due settimane

Georgia e la sua esperienza a Ceuta (Spagna) dopo due settimane


“Spesso ci si imbatte nel proprio destino, sulla strada presa per evitarlo.”
Non ho ancora avuto il tempo necessario per metabolizzare le mie prime due settimane a Ceuta, e quando ho provato a raccontare in breve ad amicizie e parenti, le prime impressioni e il perché avessi scelto di venire proprio qui, non ho potuto fare a meno di nominare il destino, perché è grazie a una serie di eventi fortuiti (“Il caso non esiste!”) che ora sono qui; e come sempre, Kung Fu Panda, ha una frase per ogni evenienza. Ah, la citazione qui di sopra è della millenaria e saggia tartaruga Oogway; quella tra parentesi, pure.

Inizialmente avevo fatto domanda per Lisbona, poiché mi trovatvo già lì per un Erasmus+ post laurea, e completamente innamorata e risucchiata dalle meraviglie del Portogallo, ero convinta, con tutta la mia testardaggine sarda, di non voler andare via, e di investire almeno un anno in quel sogno multiculturale e variopinto che è Lisboa.
In men che non si dica, però, è arrivata la risposta da Ceuta e...SBAM!


È sopraggiunta con un grosso tonfo al cuore, (e ringrazio infinitamente Laris per il supporto), perchè finalmente avevo la possibilità di vivere nove mesi in una zona di confine, particolare com'è Ceuta. Singolare perchè è l'ultimo baluardo della colonizzazione spagnola in Africa, e da quando a scuola studiai per la prima volta la colonizzazione europea, mi sono sempre chiesta da che parte mi sarei schierata, e quando ho capito che Ceuta poteva diventare la mia scelta, non ho avuto dubbi. 
  Per di più, mi offriva l'occasione di lavorare con bambini e bambine senza accesso al diritto all'istruzione e con le donne ‘transfronterizas’ (donne perennemente migranti, che varcano la frontiera ogni giorno, per compiere i lavori più umili).
Così, dopo essere riuscita a tornare pochissimi giorni in Italia, per preparare le mie cose, e i saluti struggenti, sono arrivata qui, e adesso provo a raccontarvi un po', anzi, in realtà aspettavo proprio questo momento, per concedermi il tempo di ragionarci su un po' su anche io.

Avevo sentito parlare di Ceuta solo attraverso qualche articolo di giornale. Parole come “frontiera”, “subsahariani”, “polizia marocchina”, “morti in mare”, mi risuonavano in mente, qualora ci pensavo. L'ultimo articolo letto, risaliva all'estate appena trascorsa e, riguardava alcune vite umane, stroncate in un gommone sullo stretto di Gibilterra, da dei colpi da sparo.
“Certo”, pensavo, “la situazione con cui avrò a che vedere io, è completamente diversa! Perchè lavorare con donne marocchine e bimbett* che risiedono a Ceuta, non implicherà il fatto di vedere con i miei occhi cosa succede al di là della frontiera.”
Ma a Ceuta, l'evidenza è ovunque. L'unica cosa che mi domando da due settimane, è come la maggior parte degli abitanti se ne stia tranquilla, nella propria fortezza, quando è impossibile non notare le ingiustizie quotidiane. È un po' la stessa cosa che mi ripeto in Italia, ma questa è un'altra storia ancora.

Dunque, da subito, sono partita con una carica di domande, dirette alle persone che lavorano nella mia associazione. A proposito, l'ONG ospitante del mio evs si chiama “DIGMUN: Associacion por la Dignidad de Mujeres y nin@s”. Da quello che per ora so e vedo, è che è nata da un gruppo di femministe e che, a differenza del pensiero comune nel mondo della cooperazione internazionale, non opera con progetti ad hoc, in modo da essere sovvenzionata maggiormente, ma si adopera per adempiere a dei servizi inesistenti e per garantire diritti, là dove sono negati; e già questo, mi fa sperare in bene.
Le attività sono appena iniziate: la mattina la trascorro a insegnare a leggere, scrivere e a far di conto a bambini e bambine tra i 5 e i 12 anni, mentre 3 pomeriggi alla settimana sono dedicate alle classi di alfabetizzazione delle donne marocchine. Ancora non ho abbastanza informazioni (un po' per il lavoro frettoloso e un po' per lo scoglio della lingua), per potervi raccontare meglio la situazione legislativa ed esperienziale delle persone con cui ho a che fare tutti i giorni.
Per ora, sono entusiasta di poter dare il mio piccolo contributo qui e continuerò a dividere le mie giornate tra lavoro, classe di spagnolo, corso di arabo, corse sulla spiaggia, pensieri nostalgici verso Pisa (la città che mi ha dato l'opportunità di studiare all'interno dell'unico corso in Italia sulla Pace e il conflitto), e la continua scoperta di un mondo tutto a parte che è Ceuta. 

Vorrei lasciarvi con una mini descrizione tutta mia di Sabta (nome arabo di Ceuta):
è una striscia di terra di nemmeno 20 km2, ospita una città autonoma spagnola, ma nella realtà dei fatti, nonostante le innumerevoli invasioni (anche Portoghesi!), è in territorio marocchino, di conseguenza, Africa.
La popolazione è di poco più che 80.000 abitanti, e si dice che, il 50% siano cattolici e l'altro 50%  musulmani, ma c'è chi continua a ripetere che non è possibile, perchè nella realtà dei fatti, per ogni bambino cattolico che nasce, ce ne sono tre musulmani! Tra l'altro, non so perchè, ma in questa divisione non vengono mai prese in considerazione le minoranze ebree e indù.
La maniera più utilizzata per viaggiare dall'Europa verso Ceuta è la barca da Algeciras. Una volta che si arriva nel porto, dopo un'ora o poco più, in una confortante motonave, non sembra di stare in Africa, ma in una piccola città spagnola sul mare. Il porto è accogliente e situato in un bel lungo mare, le aiuole sono tenute in ordine, le strade sono larghe e c'è addirittura il semaforo che va a intermittenza omino-donnina che camminano, insomma, potrebbe sembrare un qualsiasi quartiere marinaro, con le sue belle spiagge, il mare azzurro e i pescatori in ogni baia. 

Ma, al di là del quartiere “europeo”, ce ne sono altri, con le proprie storie, la propria gente, i propri orari, le proprie scuole, le proprie abitudini, le proprie manutenzioni e, ce n'è addirittura uno, il barrio del Principe, su cui ci hanno fatto una serie televisiva (ancora non ho avuto modo di vederla, ma dalle descrizioni, me la sono immaginata, più o meno, come Gomorra).
Riguardo all'evidenza, ieri sono andata, insieme a Claudia, la mia compañera francese di evs, con cui lavoro, vivo e fortunatamente condivido un mucchio di cose, e Manon, un'altra ragazza francese che è qui per un tirocinio e una tesi sulla psicologia dell'accoglienza delle persone migranti, siamo andate a fare il cammino delle sette torri. Si tratta delle sette fortezze costruite lungo la frontiera marocchina, dai Portoghesi (prendetela per buona, ma in realtà me l'hanno solo detto e non l'ho letto da nessuna parte), nei due secoli di colonizzazione.
Il percorso è tenuto male, non indicato e pieno di detriti e immondizia (in una zona di Ceuta c'è un cartello che ricorda alle persone che solo 5 anni fa sono stati spesi 200.000 euro per la pulizia della città), ed è a ridosso della frontiera. Terra rossa, poco verde, un mucchio di casette basse e bianche e alcuni casermoni azzurri o viola, sparsi qua e la, creano il paesaggio.
Le due alte e imponenti barriere di filo spinato, le camionette della polizia e i posti di controllo, mi mettono la pelle d'oca.
Appena superata la prima torre, già scorgiamo al di là della frontiera, una tenda con tre ragazzi subshariani. È domenica, pensiamo, durante la notte c'è un breve momento in cui la vigilanza viene meno, per  un semplice cambio di guardia, e ci sono sempre almeno 10 persone che provano a saltare.
Quando l'ho raccontato ai miei genitori, chiedendomi come facessero, mi hanno risposto che era disperazione e speranza.
Loro non hanno paura che io viva qua a Ceuta, mentre i militari e la guardia civile spagnola, vengono pagati di più, per il “rischio” che corrono.
Chi deve avere veramente paura, eppure rischia tutto, sono le persone migranti, che aspettano il loro turno nel bosco, dopo essere incorsi nelle esperienze più terribili. Eppure, ogni giorno sono lì e aspettano. Io invece, neanche arrivata alla seconda torre, posso fuggire a casa per un brutto temporale. E penso che, sì, a Ceuta non piove quasi mai, e io mi sono portata dietro la pioggia che per 4 anni, mi ha fatto compagnia a Pisa. 


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